La burocrazia uccide l’autonomia più dei tagli. Ma si riparte dai Comuni

Con buona pace del principio di leale collaborazione tra le Amministrazioni dello Stato, proseguono gli sforzi di Sisifo dei Comuni italiani costretti a fare bilanci sempre più poveri e sempre più complicati. Grazie alle nuove norme, che sia per i tagli, sia per le assurde regole da rispettare, continuano ad approfondire il solco che separa lo Stato centrale e gli Enti locali.

Non parlo solo di soldi. Ce ne siamo lamentati tante volte. E temo che ce ne lamenteremo ancora: è inutile oltre che dannoso, pensare di poter comprimere ancora le risorse di una parte dell’amministrazione pubblica, quella dei Comuni, il cui debito vale il 2% del totale.

Una parte dell’Amministrazione – quella locale, i Comuni soprattutto – è stata vessata, come hanno dimostrato soggetti terzi, in testa a tutti la Consulta, chiedendo sforzi non proporzionati al ruolo occupato rispetto al complesso della PA.

Ma c’è un’altra faccia della medaglia: quella della metastasi della complessità burocratica, che non solo affossa lo sviluppo dell’economia e delle imprese, ma rallenta e rende più inefficiente tutta la macchina pubblica. Comuni in testa. Non per loro volontà o responsabilità, ma per aderire a obblighi formali richiesti dalle nuove regole sulla contabilità (varate dal governo Monti nel 2011 e mantenute e “perfezionate” dai governi Letta, Renzi e Gentiloni).

Prendiamo il caso dei documenti da produrre, a cura degli Uffici comunali, all’atto della definizione del rendiconto finanziario. La richiesta di proroga che da parte di molti si era e si è levata, non è dettata dalla renitenza dei sindaci ad affrontare con dinamismo e tempestività i principi della nuova contabilità armonizzata (come qualcuno dalla parti di Palazzo Chigi sommessamente insinua) ma dall’obiettiva ipertrofia documentale scaturita dalle prescrizioni del Dlgs. 118/11.

Una Babilonia cartacea che dovrebbe ragionevolmente indurre a pensare che la soluzione del problema, in effetti, non sta tanto nel differimento del termine temporale ma nel prosciugamento dei documenti richiesti ai sindaci per l’approvazione del rendiconto.

C’è chi ha contato almeno 40 allegati (relazioni, tabelle, quadri riassuntivi, prospetti, elenchi…) che devono essere obbligatoriamente allegati al testo del bilancio di previsione (analogo disagio si produce negli uffici dei revisori dei conti che valutano le Amministrazioni pubbliche). Mole documentaria indigesta anche per i Comuni di medie grandi dimensioni, figurarsi per quelli di piccole dimensioni.

Rappresentano i due terzi dei municipi italiani e quasi ogni anno lo Stato prova a favorirne la fusione attraverso lo stanziamento di risorse pubbliche che, tuttavia, a oggi non hanno consentito neppure di avvicinare l’obiettivo di ridurre il numero dei Comuni.

Davvero singolare il comportamento del Legislatore nazionale. Da un lato la lunga stagione di tagli e vincoli di spesa (che hanno prodotto 11,5 miliardi in meno nei bilanci dei Comuni italiani) e di crescenti complessità burocratiche, dall’altro la richiesta di razionalizzare e concentrare servizi e attività dei Comuni di minori dimensioni. E per favorire questo processo si mettono a bilancio – come è accaduto in occasione del varo dell’ultima manovra – risorse per milioni di euro? Un incentivo? Oppure un’offerta di fatto inutilizzabile?

Ai posteri l’ardua sentenza, certo è che – oltre al drammatico capitolo delle risorse economico finanziarie – ad affaticare i Comuni resta il peso insopprimibile degli adempimenti. Come si fa a gestire questa complessità burocratica? La compliance è un onere crescente in tutte le organizzazioni complesse.

Anche nelle imprese private. Ma opprimere con obblighi di compliance anche gli enti – soprattutto quelli locali – che avrebbero bisogno di snellezza e rapidità amministrativa, beh, sembra un accanimento, degno di migliori e più nobili obiettivi.

I soldi non sono tutto, anche se il conto alla fine qualcuno lo paga. Nella Pubblica Amministrazione il cerino e l’esazione vengono da anni regolarmente lasciati nelle mani dei sindaci. Sia per gli oneri formali, sia per i vincoli sostanziali di risorse.

La misura è colma. Lo sappiamo tutti. Sindaci di centrosinistra e di centrodestra, sindaci grillini e sindaci di liste civiche. C’è un modo per dire basta? In Francia stanno scegliendo un metodo: “en marche”.

Le marce in Italia non hanno portato bene a chi le ha fatte, spaccando il Paese. Il nostro Paese ha bisogno di unità, quell’unità che ha un cuore profondo e antico nel territorio, nei territori che danno cuore a tutto il Paese. Solo una nuova stagione di autonomia locale potrà salvare il Paese. E i sindaci saranno chiamati come sempre in prima linea.

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