Autonomia e sussidarietà: l’Italia è un Paese-rete

“La nave è ormai in mano al cuoco di bordo. Ciò che trasmette il megafono del comandante non è l’indicazione della rotta, ma il menu, ovvero la lista delle cose che si mangeranno.” Citare Kierkegaard non è un vezzo. Nella metafora del filosofo danese c’è tutto lo scoramento di chi, come me, è chiamato ad amministrare la cosa pubblica sul territorio come sindaco. E si aspetterebbe di ricevere indicazioni, strategie, una rotta appunto.

Per fare scelte più oculate e coerenti avremmo bisogno di conoscere il percorso che la nostra nave sta compiendo. Invece ci viene periodicamente comunicato solo quanto possiamo spendere, in qualche modo il menu della metafora. Cioè quanto e cosa mangiare, cioè cosa consumare come risorse finanziarie e umane.
Ormai è un’abitudine. A Roma si decide, si dispone. Poi nel Paese ci si adegua.

É necessario fissare sull’agenda politica italiana un appuntamento non più prorogabile: ridare vita e ossigeno ai principi dell’autonomia e della sussidiarietà. Principi affermati solennemente dalla Costituzione ma evaporati negli ultimi anni a causa dell’emergenza finanziaria.

D’altra parte, la legge Delrio – quella che disegnava il nuovo assetto delle autonomie, prevedeva la fine delle Province e scommetteva sulla nascita delle città metropolitaneha dimostrato la sua inadeguatezza ai tempi.
Lo confermano la bocciatura dell’impianto di riforma costituzionale dello Stato con il referendum del 2016 e l’insuccesso delle “global cities”, che mai hanno preso forma in Italia.
Il modello europeo non si è affermato in Italia, lo testimonia il radicato legame fra le città medie e il territorio di cui si è parlato durante la prima conferenza nazionale delle Città medie promossa dall’Anci a cui ha partecipato anche la Fondazione Ifel.

Ne ho scritto sull’Huffington Post.

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